Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

sabato 16 marzo 2024

La felicità



La felicità, una volta consumata, tramuta nel nocciolo duro di un frutto, quel che resta della sua polpa erosa. Un nucleo che non ha sapore né odore. Un osso di traverso nella gola.

venerdì 8 marzo 2024

martedì 13 febbraio 2024

Clandestina


 Giorno 1
Clandestina

E' ora di tornare a scrivere, mi sono detta stamani come ormai mi sollecito da tanti mesi, visto che nel mio computer giacciono accatastati, come corpi di anonimi soldati in un cimitero di guerra, racconti incompiuti, appunti e bozze a cui dare un destino.
Ma oggi, magari, è la volta buona che riesco a superare il blocco del foglio bianco.
Complici di questo mio stato d'animo sono un cielo di porcellana celeste e un vago tepore marzolino, promessa di una primavera prematura, perché sebbene sia ancora gennaio nel coccio sul davanzale, tra i detriti di terra desolata, fa capolino la prima violetta, introversa esploratrice che inebria l'aria col suo intenso profumo di caramella, e intriga i sensi con la fiamma fredda del colore dei suoi petali. 
Premesse di una primavera ante tempore e del mio cambiamento di vita, questo già in corso, che mi permette di vivere sulla base delle mie necessità (la scrittura) e non più solo sugli obblighi esistenziali (il lavoro)
Un nuovo corso dove finalmente posso dilatare o restringere il tempo secondo il mio umore. 
E la mia ispirazione.
Ma è quest'ultima che ho scoperto essersi data alla macchia, la clandestina della quale non ho più, da un'infinità di mesi, alcun sentore, nonostante tutte le mattine cerchi di evocarla attraverso parole, frasi brevi per lo più, straordinariamente cariche di tutto ma prive, però, di un vero senso logico. 
Come se in quell' accozzaglia di parole incoerenti fosse nascosta l'ispirazione.
E' un guazzabuglio tondo che non origina da un punto di partenza e non ne ha uno d'arrivo, così da essere ai suoi estremi saldamente congiunto in un tutt'uno. Un nucleo dal quale io sono fuori.
 Esterna. Ed esclusa. 
Clandestina.  
Ignorata da quel vorticoso girotondo di frasi ermetiche, dada, indecifrabili o, peggio ancora, balbettanti. Troppo spesso pretestuose o banali che non mi portano a niente. Di sicuro non alla risoluzione della mia apatia mentale.
 E di questo mare fermo, laddove prima turbinavano uragani, non so che farmene.

Giorno 2
Puck

Ho trascorso, pure oggi, un lungo tempo seduta al computer senza partorire nessuna idea se non spezzoni d'immagini sfocate o in penombra, impossibili da tradurre in parole.
 Anche stamani c'è lo stesso lembo di cielo celeste, terso e asciutto, come una pregiata seta cinese.
Un cielo senza nubi né ombre, perché quelle sono tutte nelle immagini concepite dalla mia mente. 
Ah, se con quelle potessi invadere questo fazzoletto di cielo, espanderlo e plasmarlo nella sua piatta geografia, fino a scomporlo ed alterarlo nella rifrazione di un prisma!
Un gioco ottico tridimensionale.
Un tentativo di riscrittura della realtà.
Se solo riuscissi a tessere l'inganno ritroverei la mia ispirazione.
Non più clandestina, ritornerei al mio centro.

Il mio gatto Puck fa il suo ingresso con la coda dritta, mi guarda sornione e con un balzo salta sul davanzale della finestra. Dal vetro scruta il mio stesso angolo di visuale, poi si allunga verso la maniglia, segno che vuole uscire. Un gesto pigro ed insieme imperativo. Io non ottempero meccanicamente al comando e lui si gira a guardarmi stupito, abituato com'è alla mia sollecitudine. Allora apro la finestra e con un agile balzo plana nel giardino sottostante, dove si stiracchia al sole. 
Padrone di quel suo angolo di mondo non sente il bisogno d' inventarne altri. 
Lui è al suo centro. 
Lui ne è il centro.

Giorno 3
"Heaven is a place on Earth"

 Una notte tonda, questa appena trascorsa. Tonda come il girotondo di bambini che, uniti per mano, cantavano nel mio sogno "Heaven is a place on Earth", in un prato primaverile colmo di violette, sullo sfondo di un cielo turchino e sotto lo sguardo benevolo di Puck, acciambellato al centro del girotondo.
...il paradiso è un posto sulla terra, cantavano i bambini,
...dicono che in paradiso l'amore viene prima di tutto, trasformeremo il paradiso in un posto sulla terra, promettono, certi nella forza dell'amore. E della sua infallibilità. 
Perché i bambini credono nelle cose potenti, invincibili e magiche. Come l'amore.

Un tempo ci ho creduto anch'io all'amore che si è rivelato, però, essere una favola senza lieto fine e, quando tutto è finito, per non soccombere alle oppressioni del cuore e a quelle della mente, sono ricorsa all'immaginazione. Così ho cominciato a costruire realtà alternative entro cui rifugiarmi. Ad inventare storie. E poi a scriverle, sia pure per un pubblico immaginario.
La scrittura è stata per tutti questi anni il mio paradiso, il mio posto sulla terra. 
Ora però che ho perso l'ispirazione, e con essa il diritto ad abitarci, mi sento una clandestina.

Oggi non farò nessun tentativo di scrittura. 

Giorno 4
Scenari opposti e discordanti

Ho impostato "Heaven is a place on Earth" come suoneria sul mio cellulare. Mi ritrovo anche a canticchiarla mentre sfaccendo. 
Puck ieri non è rientrato a casa. Non è la prima volta  che capita, deve avere un suo rifugio segreto o una tresca amorosa con qualche gattina in zona. O magari un'altra famiglia. Una doppia vita, insomma. Dovrò pedinarlo per vedere verso chi, e dove, lo conducono i suoi vagabondaggi.
 Sorrido a questa situazione da sitcom.
La violetta, sul davanzale, è in piena fioritura, in netto contrasto con gli arbusti legnosi che dal giardino si arrampicano fino alla mia finestra, e le cui ramificazioni, come dita scheletriche, si protendono torve a volerla ghermire. La sposto dal davanzale al tavolo della cucina, accanto al cestino della frutta. Rimiro la mia composizione rendendomi conto, con disappunto, che ho appena realizzato una natura morta. Mi viene da riflettere sulla  transitorietà sulla vita. D'un tratto mi sento triste.
Ricolloco la violetta sul davanzale, perché quello è il suo posto. Il suo paradiso sulla terra.
Mi sento sollevata. Più tardi chiamerò l'amministratore perché incarichi un giardiniere per la potatura degli arbusti. 

Per tutta la giornata ho volutamente ignorato il computer, ma quello che non sono riuscita ad ignorare è il contrasto tra l'interno della casa, opprimente e scuro, e l'esterno, luminoso e rarefatto. Scenari opposti e discordanti di due realtà parallele e prospicienti.
In una di queste sono prigioniera, nell'altra, invece, clandestina.

Annotta velocemente e Puck non è ancora tornato. Così come non è tornata l'ispirazione.


Giorno 5
Una nuvola

Nel sogno, Puck, si è inerpicato fino alla finestra della mia camera e, per richiamare la mia attenzione, miagola e gratta alle imposte. Nel trambusto cade, nel giardino sottostante, il vaso della violetta. Mi alzo e apro la finestra per farlo entrare. Puck fa capolino dall'apertura e, con uno scarto deciso, s'insinua dentro. Dalla finestra scruto nel buio il punto dove è caduto il vaso, e con meraviglia scopro che tutto il giardino è fiorito di violette. Un fantastico tappeto, vivido e profumato, a rivestire il misero praticello condominiale. Anche gli anoressici arbusti sono fioriti. Si evidenziano nel buio, cosparsi da una variegata nebbiolina rosa pallido e bianca, che stuzzica i sensi con note penetranti di gelsomino.   

Mi sveglia il raspare di Puck alla finestra e il sonoro picchiettare della pioggia sulla grondaia. Mi alzo per farlo entrare. La violetta è al suo posto sul davanzale ma, alla luce cruda dell'alba i suoi  petali appaiono sciupati e sbiaditi.  
E' una qualsiasi mattina di gennaio, questa, umida e piovosa. Incolore.
La meteorologia si è riconciliata con la stagione in corso. 
 Vado in cucina richiamata dal miagolio insistente di Puck che reclama la colazione. Riempio le sue ciotole e preparo la moka per me. Nel frattempo ha smesso di piovere. 
Reduce dalla sua notte di vagabondaggi, Puck, ormai sazio, dorme acciambellato su una sedia nel calore confortevole della casa. Sorseggio il mio caffè davanti alla finestra dove una piccola nuvola, rosa e arancio, gira in tondo nel lembo di cielo circoscritto dal quadrato del vetro. Mi ricorda un pesciolino rosso prigioniero in una boccia di vetro. Un nodo mi stringe la gola. Spalanco la finestra per affrancare la nuvola dalle barriere della mia visuale. Non più confinata nel limite del mio sguardo, è ora libera di travalicare i confini del cielo fin dove la materia si fa più sublime. 

Mi piacciono le nuvole perché non hanno una provenienza specifica e neppure una meta. Non le puoi trattenere o imprigionare o conservare. Sono figlie del vento e della pioggia. Hanno un cuore zingaro, non si legano a nessun luogo e a nessuna stagione. Sono anarchiche. Nessun Dio e nessun padrone. Nessuno che le governi. Nessuno che le possa ingabbiare dentro un confine, una legge o un credo.
O un sogno. Tanto meno costringerle a nascondersi. Perché nessuna nuvola sarà mai clandestina.

Nessuna nuvola sarà mai clandestina. L'ho scritto col rossetto sullo specchio. L'ho scritto di getto per fissare la traccia mutevole della piccola nuvola rosa e arancio che ha sostato, per un breve momento, davanti la mia finestra. L'ho scritto e subito dopo cancellato, perché non mi serve un promemoria ora che ho chiara la trama. Un racconto su cose potenti, invincibili e magiche. Come lo sono le nuvole, i fiori, i bambini e i gatti. 
E l'amore, col quale trasformare il paradiso in un posto sulla terra.

martedì 16 maggio 2023

La straordinaria avventura di Mauricio Duarte a Sponge island

 


 Sponge Island

Quando Mauricio Duarte approdò su quel lembo di spiaggia ocra e cobalto, capì che il suo destino era compiuto e che nessun mezzo di terra, di aria e ancor meno di mare, lo avrebbe riportato al punto di partenza, e verso cui, neppure, vi avrebbe voluto far ritorno.
E al diavolo i rimorsi e i rimpianti, perché tutto quello che era stato nella vita passata non avrebbe mai potuto cancellarlo, ma con un po' di fantasia avrebbe però potuto ripensarlo in termini diversi, e più consoni, alla sua nuova ipotesi esistenziale. E d'immaginazione, di cui  Mauricio Duarte di certo non difettava essendo un romanziere, anche se più noto ai lettori di gossip che di narrativa.
Con un breve sguardo abbracciò il piatto paesaggio di acqua e di sabbia e sorrise soddisfatto di trovarsi completamente allo scoperto, visibile agli occhi di Dio e degli uomini, perché non c'è modo migliore di rendersi invisibili quanto quello di mostrarsi.
Pagò il prezzo pattuito al marinaio che lo aveva fin lì traghettato e, in aggiunta alla stretta di mano, lo elargì di una generosa mancia, che quello accettò con un largo sorriso.
Rimasto solo si tolse le scarpe e la giacca, e dopo essersi rimboccato le maniche della camicia, si sedette sulla sabbia a guardare l'orizzonte attraverso le lenti scure dei suoi occhiali da turista e, nell'attesa che quel lembo di mondo prendesse vita, s'accese una sigaretta.

«Dovete spegnere la sigaretta, sulla spiaggia vige il divieto di fumo. Non avete visto il cartello?»

La voce alle spalle lo fece sobbalzare. Si voltò verso la donna che lo aveva redarguito e, con un sorriso innocente, s'accinse a spegnere la sigaretta nella sabbia, ma lei, impaziente, lo ammonì di nuovo: «Spegnetela qui» Disse porgendogli una scatolina a forma di conchiglia. 
Mauricio, dopo aver deposto la sigaretta nel contenitore, alzò le mani in segno di resa: «Chiedo scusa, non ho visto il cartello».

La donna, da sotto il turbante multicolor, obiettò con un ironico: «Già» e dopo aver riposto la scatolina in una capace sacca di tela, s'allontanò senza neppure salutarlo.

«La ringrazio per il caloroso benvenuto» Le gridò dietro, in tono scherzoso, Mauricio.

Ma lei non si girò neppure.

La vide allontanarsi lungo il bagnasciuga; la gonna rossa avvoltolata  sulle generose cosce brune, e la sacca penzolante dalla spalla.

Qualche chilo di meno e sarebbe una donna strepitosa, pensò Duarte nell'osservarla allontanarsi.

«Quella è Yara, il nume tutelare dell'Isola. Io, invece, sono Anita...Anita e basta». La ragazza precisò porgendogli  la mano  con un sorriso amichevole. Dopo di che s'era seduta accanto a lui: «Benvenuto a Sponge Island» aggiunse con divertito sarcasmo.

«Piacere di conoscerla, Anita Io sono Mauricio Duarte». Nel presentarsi s'era tolto gli occhiali, curioso di vedere se il suo nome da vip producesse su di lei un qualche effetto. Ma la ragazza si limitò ad un cenno del capo e ad un sorriso. 

 «Siete qui per turismo, per devozione o per affari?» Domandò lei curiosa.

«Niente di tutto questo: sono qui per restare». Mauricio aveva risposto inforcando gli occhiali per studiare con più agio, e senza darlo a vedere, la ragazza che, decisamente, non rientrava nei suoi standard di bellezza femminile. Troppo pallida, troppo esile, quasi androgina, mentre lui prediligeva le donne brune e formose, quelle con le curve e le rientranze giuste.

«Davvero avete intenzione di rimanere qui?» La genuina sorpresa nella voce di Anita lo colpì in maniera diretta.  «Cosa avete commesso di così riprovevole per scontare una simile punizione?»

Il tono era scherzoso, ma solo all'apparenza, tanto che Mauricio, per rassicurare se stesso, si sentì in dovere di replicare: «Punizione? C'è il mare, il sole e bellissime donne.» Quest'ultima frase non era nei riguardi di Anita, ma pensò che fosse doveroso includere anche lei nell'ancora inesplorata fauna femminile dell'isola, gratificandola di uno sguardo insolente, da intenditore.

«Se lo dici tu!» Esclamò lei ridendo e dandogli del tu, prima di accomiatarsi con un sospiro di rammarico: «Devo proprio andare. E' stato un piacere conoscerti, Mauricio.»

«Piacere tutto mio, Anita.» S'era alzato per salutarla. «Ad ogni modo ci si rivede.»

«Sicuro.» Aveva confermato la ragazza .

Al primo affaccio, nel riquadro della finestra, un paesaggio fauves

Sponge Island propagava, nella luce meridiana, sullo sfondo cobalto e ocra, compatto e privo di sfumature, come sulla tela di un dipinto fauves. Mauricio Duarte, affacciato alla finestra della sua stanza del "Long Beach Hotels", alla vista di quel paesaggio fu quasi sopraffatto da un mancamento, col cuore che gli batteva pesante in petto, e un senso furioso di vertigine. A stento riuscì a ritrarsi dalla finestra, lottando con un'improvvisa fame d'aria e la conseguente sensazione d'asfissia. In qualche modo si riprese, rassicurato dall'interno anonimo della stanza, ma quella sensazione, forse meglio definirla emozione, fino a quel momento sconosciuta, lo aveva lasciato tremante. Disorientato e dissociato da se stesso. Lottando contro l'oscura fascinazione che ancora lo pervadeva, tirò i tendaggi per oscurare il paesaggio. Sedette sul divano con lo sguardo fisso sulle pareti rassicuranti della camera. Questo contribuì a riscuoterlo e collocarlo nella realtà. Andò in bagno e con una salvietta spugnò d'acqua fredda la fronte. Provò sollievo e, al ritrovato se stesso nello specchio, confidò, con incerta spavalderia: «un banale attacco di panico, vecchio mio». E dopo essersi calcato il panama in testa, strizzando l'occhio alla sua immagine, esclamò: niente che non si possa neutralizzare con una sana bevuta e una bella donna!

Al "Barrier", prove di cittadinanza

Il paesaggio, che sul far della sera s'era andato man mano scolorendosi, confondendo mare e sabbia in un' unica tavolozza antracite a cui una fievole luna disdegnava dar luce, e solo lo svogliato sciabordio delle onde lasciava intuire l'esiguo confine tra l'elemento marino e quello terrestre, non produsse alcun effetto alienante su Mauricio Duarte che, da parte sua, aveva già accantonato l'esperienza del pomeriggio etichettandola come attacco di panico, e nel frattempo predisponendosi ad una serata esplorativa della fauna femminile dell'isola.
Si lasciò guidare dall'insegna al neon "Barrier", che lampeggiava ad intermittenza, rossa e verde, come un semaforo notturno, sul frontale di un basso edificio. Spinse la porta e si ritrovò in un locale ampio, lindo, disadorno e deserto, tranne per le presenze di un ragazzo dietro il bancone e di un paio d'avventori che parlavano fitto tra di loro, nel rumoroso sottofondo di "Good Time" degli Chic propagata da un juke box. Duarte entrò dopo aver gettato un'occhiata sconfortata al locale.

«Dove sono finiti tutti...c'è il coprifuoco?» Domandò, cercando d'imprimere alla sua voce un'allegra nota di stupore ma che, invece, risuonò vagamente ansiosa

«Turista, eh?» Bofonchiò, con una risatina di sarcasmo, uno degli avventori. 

 «No, sono qui per restare.» Rispose Mauricio avvicinandosi al bancone. 

Con un gesto della mano fece segno al barista di riempire i bicchieri, ma il ragazzo lo aveva prevenuto: «Questo giro lo offre la casa, in segno di benvenuto.»

L'avventore che aveva parlato per primo s'era diretto al jukebox e dopo aver  selezionato "Sunshine Day" degli Osibisa, era tornato verso il bancone. Era un tipo asciutto, con la faccia piena di rughe, da pescatore. 

«Perché vuole restare?» Domandò a Duarte, guardandolo incuriosito.

«Già...perché? » Gli aveva fatto eco il secondo avventore, forse parente dell'altro, perché si somigliavano.

«Mi sembra un buon posto dove potersi fermare.»  Duarte, fece cenno al barista di versare un secondo bicchiere.

«Mi spiace signore, ma l'ora della mescita è terminata. Dopo il tramonto, sull'isola, non si servono più liquori di alcun tipo.» Disse il ragazzo chiudendo la bottiglia e riponendola sullo scaffale.

«Ok, allora dammene una a portar via. Me la berrò in solitudine.» Mauricio sospirò teatralmente, cercando con un'occhiata la complicità degli altri due ma ricavandone, invece, solo una smorfia di disappunto.

«Non è possibile neppure l'asporto.» Obiettò il barista, in tono dispiaciuto.

«Ma a chi vuoi  che importi, non c'è nessuno  a controllare!|» Esclamò, e poi indicando i due uomini aggiunse in tono scherzoso: «A meno che non facciate la spia». Rise.
I due si limitarono ad una scrollata di spalle, guardandolo senza simpatia.

«Niente da fare, signore. Non vogliamo noie di nessun tipo: le leggi, sull'isola, si rispettano». Concluse il ragazzo in tono gentile ma deciso, che non ammetteva repliche.

I due avventori avevano ripreso a parlottare fra loro, ignorandolo, e a Duarte non rimase che inforcare la porta e poi la strada del ritorno.

Le coltivatrici di spugne

Attirato dalla luce della prima mattina, Mauricio, memore delle sensazioni respingenti della sera prima, s'avvicinò con cautela alla finestra che s'apriva sul vasto, piatto paesaggio di sabbia ed acqua,  visibilmente alienata dalla bassa marea del mattino, e dalle cui secche emergevano busti femminili con le teste protette dal sole, a quell'ora già dirompente, da grandi cappelli di paglia o da ampi fazzoletti, munite di maschere da snorkeling e boccagli, ognuna intenta ad armeggiare in silenzio, con reti e secchi, nel proprio appezzamento d'acqua delimitato da boe e funi. Il paesaggio animato non lo respinse come era accaduto nel pomeriggio precedente anche se, a dire il vero, era solo l'oceano ad essere movimentato dalle donne immerse, che la spiaggia, invece, risultava deserta. Anche il porto, posizionato qualche chilometro più avanti, con i pescherecci attraccati a riposo al rientro della pesca notturna, e le piccole imbarcazioni diurne che scivolavano silenziose sul dorso sottile delle onde a prendere il largo, sembrava deserto. I richiami dei marinai atti alla loro quotidianità, giungevano impaludati in una muta eco marina, con le voci roche attutite e smorzate dall'aria che andava velocemente scaldandosi. Tra i copricapi femminili di diversa foggia e colore, alcuni perfino deliziosamente strambi, riconobbe il turbante multicolor di Yara, intenta con movimenti lenti ed armoniosi, (acquatici, aveva pensato Mauricio nell'osservarla) ad armeggiare tra le boe e le funi, sparire con la fiocina sott'acqua ed emergerne con prede incolori  cautamente poste a dimora in una borsa di rete. Ad ogni movimento di Yara, i lembi della sua gonna rossa tingevano di fiamma il blu cobalto dell'acqua, mentre il seno generoso si disegnava, bruno e sodo, attraverso la tela bianca della camicetta bagnata, esercitando un sensuale, muto richiamo di sirena che lo indusse a scendere in spiaggia per tentare un approccio con la sensuale dea, il nume tutelare dell'isola, così come l'aveva definita l'incolore Anita.
Indossò il panama e gli occhiali, e dopo una rapida occhiata di approvazione allo specchio, uscì.

Jukebox mania 

La hall era deserta, non c'era nessuno, nemmeno il portiere, ma da qualche spiraglio dell'etere s'erano insinuate le note vivaci  di "Happy Days" di Pratt e McClain
Sembra che qui imperversi la mania dei juke box e delle allegre canzoni da hit, si ritrovò a riflettere Mauricio, scorgendo l'apparecchio dietro la reception. Sorrise di questa che gli sembrava una buffa fissazione degli isolani, ed uscì in spiaggia.
Ragazzini si rincorrevano sulla spiaggia mettendo a rischio l'ambulante che con fatica trainava, nella sabbia, il suo banchetto di frutta fresca e granite. Un nutrito gruppo di turisti, (tedeschi, ipotizzò Duarte), vestiti con bermuda e camice hawaiane e muniti di cellulari scattavano foto, entusiasti e rumorosi, si davano grandi pacche sulle spalle..
...ma la spiaggia, intravista dal riquadro del "Long Beach Hotels" non era quella!
Dove sono finite le coltivatrici di spugne? Duarte s chiese, smarrito, davanti a quell'ordinario panorama acquatico increspato di onde e di bagnanti.

«Dove sono finite le coltivatrici di spugne?» Domandò al barman intento ad asciugare bicchieri dietro al bancone del "Barrier".

«Quali coltivatrici di spugne?» Gli fece eco una voce incuriosita alle sue spalle.

 Si girò e riconobbe uno dei due avventori della sera precedente. 

«Le ho viste affacciandomi alla finestra del "Long Beach Hotels" dove alloggio. Tra loro c'era anche Yara...la conoscerete di certo Yara, la dea dell'isola». Esclamò incerto davanti allo sguardo perplesso dei due.


«Di cosa farneticate, amico?  Yara è morta e qui non si coltivano spugne da almeno un decennio, vi sarete lasciato influenzare dal nome dell'isola o, molto più probabilmente, da qualche drink di troppo». Obiettò l'uomo, guardandolo severo.

«Nessun drink. Neppure un goccio. Come avrei potuto ubriacarmi dal momento che su questa dannata isola esistono solo divieti?». Domandò sarcastico, e vagamente minaccioso, Duarte.

L'altro, raccogliendo il tono poco amichevole, gli si era fatto sotto, ma intervenne il barman a prevenire una probabile, inopportuna discussione.

«Niente risse qui!» S'intromise perentorio.

«Temi che si spaventino i clienti?» Domandò Duarte, indicando con disprezzo il locale vuoto

«Niente risse!» Ripeté il ragazzo.

«Ok...niente risse, allora riempi il bicchiere con qualcosa di forte. O c'è ancora il coprifuoco?»

«Niente da fare, siete troppo su di giri, e non sarebbe salutare né per voi, né per noi, un'ubriacatura. A me toglierebbero la licenza e voi finireste in gattabuia». Obiettò, stavolta in tono più conciliante, il barman.

«...e scommetto che anche lì ci troverei un juke box che suona briose canzoncine di benvenuto». Lo irrise Duarte, prima di andarsene.

Anita

«Mauricio...ehy, Mauricio, ti ricordi di me? Anita...»
Lui s'era voltato sorridendo: «Certo che mi ricordo di te, Anita, l'unica persona non ostile su quest'isola». Declamò, teatrale, Mauricio.
Lei aveva riso, prendendolo sottobraccio.
Indossava un cappellino blu con visiera e un prendisole rosso dai disegni minuti.
Sembrava molto giovane, ma anche molto sicura di sé. 

«Immagino ti riferisca agli isolani. Non badarci. Sono gelosi della loro isola e non amano troppo i turisti. Ma hanno bisogno di loro per sopravvivere. La fragile economia di questo luogo è legata ad un eco sistema molto vulnerabile..» s'interruppe indicando, con un gesto vago, il paesaggio «qui è tutto così...evanescente... per questo ci sono tanti divieti, per non...».

«...per non indurre nessuno a restare?» La interruppe lui con una smorfia divertita. Ma il tono era serio.

«Probabile». Assentì lei, ridendo. 

Il sole picchiava forte e il suo bagliore incandescente penetrava la schermatura scura degli occhiali.
In cerca di ristoro sedettero sotto un porticato che ombreggiava una fila di cabine in muratura, bianche e azzurre, e al momento disabitate. In un angolo campeggiavano un jukebox e un flipper.

Brevemente le raccontò lo scambio di battute avute con i due avventori del "Barrier", a proposito di Yara e delle coltivatrici di spugne.

«Io le ho viste, quando mi sono affacciato alla finestra della mia camera d'albergo, c'erano tutte queste donne in acqua intente al loro lavoro. C'era anche Yara». Disse, senza preamboli, Mauricio Duarte. Il tono era quello di un'affermazione netta che, per sicumera o per timore, non contempla smentite. 

«Yara è morta, e le spugne non si allevano più da circa dieci anni». Disse Anita, in tono incolore, confermando la veridicità dell'informazione.

«Come può essere morta se l'abbiamo incontrata ieri su questa spiaggia? Ci ho parlato e l'hai vista anche tu!» Esclamò stizzito, togliendosi gli occhiali per meglio valutare le reazioni della ragazza che si limitò, invece, ad un sorriso pensieroso.

«Yara è morta» Ripeté lei paziente «Ma questo non significa che tu...anzi, noi, non la posiamo vedere».

Duarte la guardò perplesso e poi feroce, stringendola malamente per un polso: «Mi stai prendendo in giro?»  

Anita, da quella stretta, cercò di liberarsi «Mi stai facendo male» Lo disse senza alcuna ostilità, come se volesse renderlo consapevole di un danno involontario che andava perpetrando nei suoi confronti.

Lui lasciò la presa: «Se provi dolore significa che sei viva». Rispose beffardo

«Non necessariamente chi prova dolore è vivo, ma si, io sono viva, almeno quanto te». S'era tolta gli occhiali e attraverso il tavolo gli tese la mano, ma Mauricio, deliberatamente ignorò il gesto.

«E le allevatrici di spugne? Anche loro morte?»

«Non tutte, solo quelle che hai visto. Intendo dire che non tutte le coltivatrici di spugne sono morte, ce ne sono ancora sull'isola, ma è un'attività che non si pratica più».

Mauricio scosse la testa: «Non credo a niente di quello che hai detto».

«Posso dimostrarlo». Anita s'era alzata ma lui era rimasto al suo posto.

«Non voglio convincerti di nulla. Voglio solo farti vedere, toccare e capire»

«Cosa fate qui? Depredate i turisti della loro volontà e poi dei loro averi? E' questa l'attività che ha preso il posto del commercio delle spugne?» 

«Vieni con me e capirai» Rispose la ragazza paziente, tendendogli di nuovo la mano.

Quella notte, quando la luna s'allontanò dalla terra

Percorsero il camino a ritroso, senza scambiarsi una parola, finché Anita ruppe il silenzio: « E' accaduto su quest'isola, circa un decennio fa, qualcosa d'inspiegabile. Avvenne una notte, quando una fitta cortina di buio avvolse Sponge Island, totalmente oscurando ogni cosa. Un buio labirintico, impenetrabile, così assoluto da confondere i sensi ed annullare le percezioni. All'inizio si ipotizzò una straordinaria eclissi di luna, ma poi i nostri scienziati convennero fosse dovuto ad un breve, imprevedibile, allontanamento della luna dalla terra. Ma non dall'intero pianeta, perché il blackout coinvolse solo, per qualche manciata di minuti, questa minuscola protuberanza di terra nel Pacifico. Poi...».

Ma Duarte la interruppe scettico: «...se fosse vero quello che tu dici il fenomeno avrebbe avuto risonanza mondiale, non credi? Non si può tener nascosto un evento del genere. Lo avrebbero di sicuro rilevato le postazioni della NASA presenti sul suolo lunare». 

Anita scosse la testa: «Deve essere accaduto qualcosa, in quei minuti che ha escluso dal rilevamento degli eventi la NASA. Non c'è altra spiegazione e, viste le conseguenze che per Sponge Island ne sono derivate, il nostro governo ha pensato bene di mantenere il silenzio su ciò che era accaduto, ma da quella notte, qui, niente è stato più come prima».

«E cos'è accaduto poi di così straordinario su questo fazzoletto di terra? Tranne per il sole assassino che crea scompensi alla vista e alla testa, e procura visioni non reali agli sconsiderati turisti sottomessi a divieti inflessibili, mi sembra che tutto sia nella norma». Obiettò Duarte, scoppiando in una risata forzata.

«Da quella notte, qui, niente è stato più come prima». Proseguì Anita testarda, volutamente ignorando il tono irridente di Mauricio. «Ma ora vedrai con i tuoi occhi, perché siamo giunti a destinazione». Annunciò, fermandosi nello spiazzo del "Barrier".

Ai bordi di una realtà limitrofa

Con sorpresa, Duarte, si accorse della presenza di tavolini e ombrelloni disseminati  nella piazzola del "Barrier", che nelle sue visite precedenti non c'erano. Stava per dirlo ad Anita, ma lei aveva già varcato la soglia. Il locale era gremito, voci estere si sovrapponevano al sottofondo discreto della musica e al tintinnio ghiacciato dei bicchieri. Le pareti erano tappezzate di stampe di Henry Matisse e Andrè Derain,  e, dietro al bancone, campeggiava un grande specchio rettangolare. A servire i clienti, due ragazze brune e formose, distribuivano drink e sorrisi, ricevendo in cambio generose mance, mentre una terza,  vestita di micro shorts e una camicetta annodata sotto il seno, faceva la spola tra i divanetti interni ed i tavoli esterni.

Quando vide Anita la salutò e con un cenno d'intesa le indicò un tavolino appartato, nel fondo del locale dove Duarte, frastornato, la seguì.

«Dove diavolo siamo?» Chiese in tono forzatamente neutro, ma percependo i sintomi dello smarrimento del pomeriggio precedente.

«Al "Barrier"». Rispose lei con naturalezza.


«Non è il "Barrier" dove io sono stato. Non c'erano  tavolini, né quadri e neppure specchi. A dirla breve non c'era niente, tranne un jukebox».

Per tutta risposta, Anita fece un cenno alla cameriera in shorts di avvicinarsi per poi chiederle: «Il mio amico dice che questo non è il "Barrier", per favore, Gracia, puoi confermargli che nei dintorni non c'è un altro locale simile?».

«Non ce ne sono altri, signore, il "Barrier" è l'unico». Confermò la ragazza in tono gentile e poi, in quello professionale domandò se volevano ordinare.

 «Ho bisogno d'aria». Duarte s'alzò di scatto facendo cadere la sedia e s'avviò a precipizio all'uscita. 
Fuori all'aria aperta, lottò contro la sensazione d'asfissia che lo lasciò tremante ed esausto e totalmente disorientato. 

«Ti prego dimmi che non sto diventando pazzo». Mormorò ad Anita che lo aveva raggiunto.

 «Non sei pazzo» Lo rincuorò lei, stringendogli la mano «E' l'effetto che l'isola produce sulle nostre sensazioni. Non su quelle di tutti, ma solo su chi è predisposto. Come me e te. E Yara». Disse Anita indicando la donna che pattugliava la battigia con un retino, ripulendola dalle intemperanze dei turisti.

«E' un fantasma. Un inganno della mente». Duarte, obiettò rancoroso, con un gesto della mano a voler scacciare la visione.

«E' qualcosa di più complesso di un fantasma o di un inganno della mente, e paradossalmente più spiegabile. In realtà Yara non è morta, ma è scivolata nel varco di un universo parallelo. Un passaggio che si è aperto nello spazio-tempo quella notte, quando la luna s'allontanò dalla terra». Tacque, per dar tempo a Duarte di elaborare la spiegazione e fare domande. Ma lui, invece, scoppiò in una risata senza allegria.

«Non sono io il pazzo ma piuttosto voi tutti su quest'isola. Avete orchestrato una combutta per i turisti gonzi...però, di fantasia non difettate...magari mi avvarrò di questa trama per scrivere un romanzo. Confesso che a me non sarebbe mai venuta in mente... ma ultimamente difetto in materia». 

Anita, ignorando il sarcasmo nelle parole di Duarte, proseguì in tono paziente la sua narrazione: «Quella notte una parte di noi venne inghiottita in questo varco, ma non ci rendemmo subito conto di cosa era realmente accaduto, ma il giorno dopo scoprimmo che centinaia di persone erano scomparse. Li cercammo ovunque, scandagliammo per giorni il fondo dell'oceano nonostante la temperatura dell'acqua si fosse elevata di diversi gradi, così come quella dell'aria. Il disastro ambientale fu di proporzioni immani. Molte specie marine, tra cui le spugne, su cui proliferava la nostra economia, si estinsero, e l'aria irrespirabile fece strage tra i fragili e gli anziani. Temendo il terremoto mediatico non demmo notizia dei fatti realmente accaduti quella notte, e attribuendo l'incremento delle temperature ad un drastico, inspiegabile surriscaldamento climatico. Degli scomparsi decretammo la morte, fino al momento in cui alcuni di noi iniziarono a vederli. Vedevamo loro e loro vedevano noi. E a pochi privilegiati, come è accaduto a te per inspiegabili ragioni, perfino d'interagire. Quello che tu hai visto dalla finestra del tuo hotel è una visione di Sponge Island come era prima di quella notte. Quella parte dell'isola, che ora non esiste più, restituita dalla visione dell'universo parallelo che l'ha inglobata. Stessa cosa per la tua esperienza al "Barrier", le persone con le quali tu hai parlato erano tra gli scomparsi. Ma il "Barrier" dove tu sei entrato non esiste più da molto tempo, soppiantato ormai da molti anni dal nuovo "Barrier". Riesci ora mettere a fuoco la differenza tra il prima e il dopo?».

«Prima vivevate in una società basata sui divieti e sulle cen...»

«No, era una società basata su scelte ecologiche consapevoli. Non erano divieti ma modus vivendi acquisiti ed accettati. Turismo selezionato e d'avanguardia. La nostra economia basata sulla sostenibilità ambientale non ammetteva infrangimenti alle regole. Poi, dopo quella notte, tutto è cambiato. Per sopravvivere abbiamo dovuto dar spazio al turismo di massa, accettare compromessi e tutto al ribasso. Anche se le temperature dell'aria e dell'acqua col tempo si sono stabilizzate su valori sopportabili, seppure all'insegna di un caldo desertico, Sponge Island non è più il paradiso terrestre. Non in questo universo, almeno». Concluse sconsolata.

«Il paradiso lo si può concepire in tanti modi, e il vostro, a mio avviso era alquanto noioso. Non sarei mai rimasto nella vecchia Sponge Island e dubito che nessuno lo abbia mai fatto» Ribatté ostile, al solo scopo di contraddirla.

«C'è qualcuno che voglio farti conoscere». Disse lei prendendolo sottobraccio e, senza dargli tempo di replicare, lo stava già guidando lungo il sentierino oltre il "Barrier".


Fernando Rey e  dog Rey

La stradina terminava di netto davanti al cancello di ferro battuto di una grande casa dai muri ocra e le persiane blu cobalto. Un cartello con l'effige minacciosa di un molosso rossiccio, con la bava alla bocca e gli occhi gialli, ordinava perentorio "Andatevene!".  Anita suonò il campanello e dal fondo del vialetto, come una saetta, s'avventò contro il cancello, abbaiando furiosamente, un meticcio di media corporatura, dal pelo arruffato Lo seguiva un uomo alto, stempiato, dall'andatura svogliata e un sigaro all'angolo della bocca. Quando vide Anita, sulla sua faccia comparve un ampio sorriso.

«Buono, Rey. Lei è di famiglia... anche se non la si vede quasi mai da queste parti». Il tono era ironico ma con un fondo di dolcezza.

 «Ciao papà. Hai preso un cane?». Domandò Anita, dandogli un bacio sulla guancia.

«Non è un cane, dog Rey è il mio body guard. Vero, dog Rey?» Sentendosi appellare per nome, il meticcio, dopo aver chiarito con un ultimo minaccioso ringhio che quello era proprio il suo ruolo nei confronti di Fernando, si pose al suo fianco, in silenzio e in vigile attesa.

«E il tuo amico chi è?» 

«Mauricio Duarte». Si presentò Mauricio, tendendogli la mano.

«Fate parte anche voi della consorteria dei nostalgici della vecchia, morigeratissima, Sponge Island?» Squadrò curioso Duarte che scosse la testa stupito: «Non ne so nulla, sono solo di passaggio». 

L'affermazione di Duarte, tra il pavido e l'impacciato, scatenò la brusca  risposta di Anita: «Avevi detto che restavi!»

«Le atmosfere di Sponge Island confondono le idee. Siete saggio a non fare progetti. Soprattutto non ascoltate mia figlia». Lo prevenne divertito Fernando, venendogli in soccorso. 

«Papà!» Esclamò, offesa, Anita.

Dog Rey, cogliendo il disappunto nel tono di Anita, s'intromise con un sordo, minaccioso, sibilo.

Fernando fece accomodare l'ospite nel salotto arieggiato da un'enorme ventilatore a soffitto munito di cinque pale, anche se il refrigerio era dato in massima parte da un più discreto, e meno scenografico, condizionatore. Ma in realtà, Mauricio notò, che tutta la stanza era arredata in maniera sofisticata e molto personale. Non c'era la mano di un architetto ma solo il gusto di Ferrnando Rey.

«A cosa devo l'onore di questa visita?» Aveva aperto lo stipite un fornitissimo mobile bar e, con un gesto della mano, invitato Duarte a servirsene.

«Mauricio, non solo riesce a vedere ma perfino ad interagire con la vecchia Sponge Island. Mi ha descritto il "Barrier" esattamente come era un decennio fa, e non essendo di qui non capisco come possa averlo fatto. E poi ha visto Yara...l'avevo vista anche io, ma lui ci ha anche parlato.» Raccontò Anita, in preda all'euforia.

«Ancora con questa storia, bambina?« Chiese in tono indulgente, scuotendo il capo. E poi, a Duarte, in tono marcatamente scettico: «Dunque, a quanto afferma mia figlia, avete conosciuto Yara. Anita vi ha detto che Yara è morta da un bel po' di anni ormai?»

«Si, me lo ha detto.» Confermò, Duarte a disagio.

«Siete un veggente, Mauricio? Di quelli che affermano di avere rapporti con l'al di là? E cosa davvero avete visto? O sarebbe più corretto chiedervi cosa vi è sembrato di vedere?» Domandò cortese, ma con nel sottofondo una nota di scherno.

«Cosa mi è sembrato di vedere...» Duarte era confuso. Mortifcato.

«Sembrare. Credere. Pensare. Non sono affermativi.» Obiettò, in punta di fioretto, Fernando.

«Papà, smettila! Lo stai volutamente confondendo.» Insorse esasperata Anita.

«No, a questo, ci hai già pensato tu » Replicò sarcastico Fernando. Poi, rivolto al suo ospite, nello stesso tono, confidò «Sono decenni che gira la leggenda di questo fantastico blackout cosmico che avrebbe colpito Sponge Island, e della voragine spazio-temporale, che avrebbe inghiottito, in un universo parallelo, una porzione d'isola coi suoi abitanti. Una fiaba a cui fanatici ecologisti, tra cui mia figlia, pur senza alcuna prova, si ostinano a dar credito.»

«Ecco...appunto... Anita, mi ha raccontato di quella notte, quando la luna si è allontanata dalla terra e...»

Duarte, sconsolato, allargò le braccia: «Mauricio, siete un uomo colto ed intelligente, davvero potete credere che né gli americani, o i russi, che hanno sul suolo lunare postazioni sofisticate e potenti, avrebbero potuto non rilevare tale evento?» Domandò incredulo, guardandolo negli occhi.

«In effetti è stata la mia prima obiezione al racconto». Ribadì Duarte, intimidito. Ma l'altro non gli diede tempo di uscire dall'angolo in cui lo aveva cacciato, per stenderlo definitivamente: 
«La verità, unica incontrovertibile è che, nonostante le demenziali politiche ecologiche perversamente basate sui divieti, a Sponge Island si è verificato un catastrofico rialzo delle temperature che ha distrutto le fonti  su cui basava l'intera economia di cui la stessa Yara era stata appassionata fautrice. Sua l'idea delle Sponge Farms e di quel turismo eco sostenibile che ha trasformato l'isola in una prigione a cielo aperto, inducendo gran parte degli abitanti ad andarsene. A causa delle intransigenti politiche ambientaliste Yara si era fatta molti nemici, ed è probabile che con lei non siano andati per il sottile. Mentre gli isolani scomparsi, di cui vaneggia mia figlia, non sono morti e neppure stati inghiottiti dal multiverso, semplicemente sono scappati verso esistenze più libere. Anche i turisti, quando hanno scoperto quanto restrittive erano le regole di questo paradiso, hanno cominciato a disertare l'isola. Il cambiamento climatico, disastroso ma in qualche modo provvidenziale, è stato l'alibi per nascondere il fallimento dell'impresa e giustificare il ritorno ad una società più inquinata ma molto più tollerante.» lo redarguì severamente, in tono quasi paternalistico «Per l'amor di Dio, Mauricio, lasciate questa storia inverosimile ad uso e consumo dei ragazzini e degli ecologisti più fanatici, e non dategli alcun credito. Sapete perché Anita vi ha portato qui? Per convincermi, tramite voi, ad aderire alla sua stramba causa, perché sono molto ricco ed è risaputo che gli ideali da soli non portano alla vittoria.» Concluse puntando il dito contro la figlia.

Quel gesto accusatorio scatenò la reazione incontrollata di Anita nei riguardi, però, di Mauricio: «Perché mi stai facendo questo? Perché rinneghi quello che hai visto e sentito? Yara non solo l'hai vista ma ci hai anche parlato. E mi hai fatto un'accurata descrizione del vecchio "Barrier", dove tu non sei mai stato ed ignoravi, fino ad oggi, la sua esistenza. Poi, quando sei venuto con me in quello che ora è il "Barrier", sei rimasto sconvolto. Non era il locale dove tu Gracia, una delle cameriere, ne è testimone.»

 Fernando, a sua volta, prese a pungolarlo provocatorio: «Avete davvero parlato con Yara o ve lo siete solo immaginato? Questo sole assassino non solo danneggia la vista ma provoca allucinazioni. Come avrete notato qui il paesaggio è abbacinante e il riverbero del sole non dà tregua. Non ci sono ombre né sfumature. Sponge Island è il luogo più innaturale del pianeta dove è facile essere preda delle suggestioni.»

Nell'ultima parte del discorso il tono di Fernando s'era sempre più ammorbidito, fino a diventare comprensivo. Solidale. Gli stava tendendo un appiglio per uscire dalle sabbie mobili dove s'era maldestramente impantanato, fornendogli una motivazione con cui giustificare la sua stupida credulità. Mauricio lo capì e s'affrettò ad afferrare quel ramoscello: «Razionalmente? Convengo con voi che non si è trattato altro che di suggestioni.»

«Me ne vado. Non ce la faccio a sentire i tuoi discorsi. La tua miscredenza, papà, anche davanti a prove evidenti, è oltraggiosa altrettanto come la tua disonestà intellettuale, Mauricio». Urlò furiosa ad entrambi, ed intimò a Duarte: «Andiamo via!».

La reazione scomposta di Anita, aveva allertato dog Rey, già pronto a scattare, ma Fernando lo prevenne: «Buono dog Rey, Anita ringhia ma non morde: è solo giovane ed intransigente. Una pulzella d'Orleans molto perentoria e poco educata, che non vi ha chiesto se volete andare oppure rimanere aper un altro bicchiere. Così ve lo chiedo io: rimanete? Non mi capita spesso di avere ospiti con i quali sono in così completa sintonia». 

«Accetto volentieri l'invito». Rispose pavido Duarte, gettando un'occhiata ingorda al mobile bar così ben provvisto. E poi, ad Anita «Non ti dispiace, vero?»

Per tutta risposta lei uscì sbattendo la porta. Solo allora Fernando vide che  aveva dimenticato gli occhiali da sole. 

«Scusate, Mauricio, la rincorro e glieli porto perché il riverbero del sole, a quest'ora del giorno, è micidiale. Ma vi prego, in mia assenza non fate complimenti e servitevi pure». Disse indicandogli una bottiglia di "Ron  Abuelo Centuria".


In attesa
 

Fernando Rey corse fuori e trovò Anita in attesa, vicino al cancello.

«Allora, cosa ne pensi di lui?» Domandò la ragazza, presagendo, però, la risposta.

«Non è adatto. E' troppo instabile ed influenzabile. Hai visto con quanta prontezza ha rinnegato la sua esperienza? Il nostro alleato dovrà essere psicologicamente solido, avere fede  nella sua capacità di giudizio ma, soprattutto credere nella sua missione. In poche parole non dovrà assolutamente essere manipolabile. Duarte, invece, è l'esatto contrario: egocentrico, malleabile, corruttibile ed incoerente. Puoi scommetterci che domani salirà sul primo traghetto senza neppure passare a salutarti.»

Anita, assentì con un sospiro. Fernando le porse gli occhiali: «Pazienza, tenteremo ancora. Non bisogna scoraggiarsi, prima o poi riusciremo a trovare qualcuno che possa per noi varcare quel confine e ricongiungerci agli altri.» 

«Con Duarte, però ci siamo scoperti forse troppo. E se  raccontasse a qualcuno di questa storia? Ci siamo sempre preoccupati che rimanesse segreta, che di quella notte nulla trapelasse.»

«E' uno scrittore, penseranno che è frutto della sua fantasia anche se, nel borsino della critica, Mauricio Duarte è da lungo tempo ormai in caduta libera. "Gioia di vivere," il suo libro d'esordio, è l'unico, nella sua scarna produzione, ad aver riscosso un certo successo, poi solo una sequela di libercoli senza alcun valore. Duarte è un donnaiolo, dedito essenzialmente ai piacere della vita piuttosto che a quelli della letteratura. Con le sue credenziali il nostro segreto è al sicuro, e con la sbornia che gli farò prendere magari non ricorderà più niente.» Rise, senza allegria

Anita era delusa «Un altro fallimento. Mi chiedo se troveremo mai qualcuno in grado di agire per noi.»

 «Non lo so, ma quello che posso garantirti è che continueremo a cercare. Te lo prometto.» La rassicurò Fernando, prima di tornare dal suo ospite.

domenica 29 gennaio 2023

Cagliostro e Drugo: amici/nemici/fratelli

 


Ho raccontato molto dei miei gatti e, nonostante stiano con me ormai da molto tempo (otto anni Cagliostro e quattro Drugo) continuano ogni giorno a sorprendermi con l'innocenza, la spontaneità e, in alcuni momenti, la stravaganza delle loro performance.
Guardarli è come sfogliare un fumetto o assistere a un film della Disney: il sorriso mi si stampa in automatico sulla bocca, qualunque sia il mio umore.
Così schiettamente diversi, Cagliostro e Drugo, non hanno mai ipocritamente tentato, come spesso è nella natura umana, di falsificare le carte e spacciarsi per quello che non sono o, addirittura, voler essere l'altro.
Fieri di essere indiscutibilmente se stessi, non hanno mai tentato di addomesticarsi ai miei desideri neppure per il miraggio di un premietto.
... e, a tal proposito, cosa se ne fanno del mio benestare se Cagliostro, ormai abile scassinatore di credenze e cassetti, se ne approvvigiona autonomamente, spartendo le ruberie col suo coinquilino?
Mangiano insieme la refurtiva, seppure Drugo, più agile e vorace, soffia all'altro l'ultimo boccone. Cagliostro, a tutta prima, pare non aversene a male, anche se continua per un po' ad annusare il pezzetto di pavimento dove prima c'era il bocconcino trafugato. Terminato il pasto, fuori menù e fuori orario, in sincronia, seppure dislocati in angoli diversi, i due sodali si leccano i baffi e le zampe, si stiracchiano e sbadigliano.
Drugo, come consuetudine, dopo ogni pasto s'appisola, Cagliostro, invece, la tira per le lunghe. Lui, che pure è tipo da letargo, diventa tutto ad un tratto irrequieto, quasi che passata la botta di adrenalina della malefatta, abbia bisogno di ripetere l'esperienza. Stavolta, ad essere scassinata è la porta di casa. La maniglia cede dopo il primo vigoroso, maschio assalto, destando dal sonno Drugo che, attratto da quello che gli sembra un nuovo gioco, scansa Cagliostro seduto indifferente sulla soglia e cerca la via dell'avventura lungo le scale. Ovviamente mi precipito affannata a recuperare il fuggitivo mentre lo scassinatore resta immobile sull'uscio. Quando risalgo con Drugo in braccio, lui, con aria di sufficienza, si sposta quel tanto che basta a lasciarci passare e, senza alcuna sollecitazione da parte mia, rientra in casa.
«Volevi smammarlo?» Lo sgrido, mentre mi fissa impassibile. Poi, dopo aver chiuso a chiave la porta, puntandogli il dito contro, lo avviso: «Se lo rifai ancora sarai tu a sloggiare, capito?» Cagliostro non si scompone alla minaccia e placidamente ignorandomi s'avvia al divano sotto cui Drugo, dopo che l'ho sgridato, per prudenza s'è rifugiato e dove, nel frattempo, ha scovato una pallina che con abilità calcia e poi rincorre per la stanza, proponendosi nel doppio ruolo di attaccante e difensore. Nell'enfasi del gioco la scaglia in un angolo da cui rimbalza e finisce tra le zampe di Cagliostro, che fino a quel momento ha seguito annoiato il trambusto prodotto dall'altro, che se ne impossessa senza dar mostra di restituirla. E' nella sua area e a quanto pare non intende rimetterla in campo. Drugo, sulle prime, fraintende l'intenzione dell'altro ipotizzando la sua adesione al gioco, così rimane in attesa del rilancio, ma quando questa si prolunga, lo sollecita dapprima con brevi, amichevoli miagolii, poi, capita l'antifona tenta, con l'irruenza che gli è propria, di riprendersela e, con un'acrobazia felina, gliela soffia via, correndo sotto il letto. Cagliostro non ci sta e parte all'attacco per ritrovarsi entrambi in un turbinio rarefatto di peli sopra il letto a suonarsele di santa ragione. Cagliostro è di stazza maggiore ma l'altro non si fa intimorire, glissa le zampate e se ne frega delle soffiate, con un agile mossa lo scavalca e si catapulta a terra. La lotta continua in tutti gli angoli della casa, sopra e sotto i mobili, perfino nella lettiera dove Drugo, sconsideratamente, s'è andato ad infilare. Il rumore della sabbia che dalla cassetta travasa sul pavimento m'induce ad intervenire. Di solito non m'intrometto nelle loro faccende se non per controllare, discretamente, che nessuno dei due si faccia male e non mi distruggano casa. E' un gioco, quello della lotta...per Drugo lo è di sicuro, Cagliostro però è fumantino e credo non abbia dimenticato che una volta, in questa casa, era tutto suo, d'esclusiva proprietà perché non c'era nessun cacacazzi a fottergli i bocconcini onestamente rubati.
«Adesso basta!» Li rimprovero severa nell''intento di riportare, tra i due gladiatori, una pace seppur forzata.
Due paia di occhi color ambra mi fissano. Due code svettano.
Non capisco se è una resa o una minaccia.
«Meow». Miagola Drugo, consenziente, scrollandosi vigorosamente di dosso residui di sabbietta, che sparpaglia fin sotto la porta.
Cagliostro, che è un aristocratico, lo guarda disgustato (se non fosse total black, giurerei di avergli visto alzare il sopracciglio), poi, con noncuranza s'avvia alla credenza della sala da pranzo.
Drugo lo segue e gli si pone a lato. Affiancati nel minuscolo spazio di una mattonella, di nuovo uniti, in attesa che io entri e apra quella credenza, per il rito della sera, quello della spartizione di uno snack
«Meow». Implora, con un vocino dolce, Drugo., guardandomi coi suoi occhi tondi da bambino.
Contrasta il silenzio di Cagliostro che per me, invece, è molto eloquente: «Ci dai il premietto di tua spontanea volontà o quando dormi dovrò forzare la credenza?»

Marilena